Piccolo aiuto in latino...

Spero che questo blog possa esservi utile per tradurre alcune delle "noiose" versioni di latino!
Mi auguro che troverete ciò che fa per voi...
In bocca al lupo!!!

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Aulo Gellio - Noctes Atticae - Liber XV

Aulo Gellio

Noctes Atticae

Liber XV

XVI - Singolare morte di Milone di Crotone

Milo Crotoniensis, athleta inlustris, quem in chronicis scriptum est Olympiade LXII primum coronatum esse, exitum habuit e vita miserandum et mirandum. Cum iam natu grandis artem athleticam desisset iterque faceret forte solus in locis Italiae silvestribus, quercum vidit proxime viam patulis in parte media rimis hiantem. Tum experiri, credo, etiam tunc volens, an ullae sibi reliquae vires adessent, inmissis in cavernas arboris digitis diducere et rescindere quercum conatus est. Ac mediam quidem partem discidit divellitque; quercus autem in duas diducta partis, cum ille quasi perfecto, quod erat conixus, manus laxasset, cessante vi rediit in naturam manibusque eius retentis inclusisque stricta denuo et cohaesa dilacerandum hominem feris praebuit. [...]
Milone di Crotone, atleta illustre, di cui è scritto che fu incoronato vincitore nella 62ª olimpiade, ebbe dei risultati da una vita deplorevole e meravigliosa. Dopo che aveva rinunciato alla propria arte atletica per l'età già avanzata, mentre camminava per caso solo in regioni boscose d'Italia, vide una quercia vicinissima ad una strada, di cui i rami si aprivano nella parte centrale. Allora volle mettere alla prova le sue forze, introdusse le dita nelle fenditure dell'albero e tentò di dividere e rompere la quercia. E senza dubbio ruppe e svelse la parte centrale, poi aveva diviso la quercia in due parti, e con quella mano allargò. Pertanto, poiché la forza si era arrestata, la quercia ritornò alla conformazione naturale, ma trattenne e chiuse dentro le mani di lui e, unita nuovamente, mostrò agli animali il misero uomo e quelli lo lacerarono. [...]

Aulo Gellio - Noctes Atticae - Liber XIII

Aulo Gellio

Noctes Atticae

Liber XIII

XVII - Il significato di humanitas

Qui verba Latina fecerunt quique his probe usi sunt, "humanitatem" non id esse voluerunt, quod volgus existimat quodque a Graecis philanthropia dicitur et significat dexteritatem quandam benivolentiamque erga omnis homines promiscam, sed "humanitatem" appellaverunt id propemodum, quod Graeci paideian vocant, nos eruditionem institutionemque in bonas artis dicimus. Quas qui sinceriter cupiunt adpetuntque, hi sunt vel maxime humanissimi. Huius enim scientiae cura et disciplina ex universis animantibus uni homini datast idcircoque "humanitas" appellata est. Sic igitur eo verbo veteres esse usos et cumprimis M. Varronem Marcumque Tullium omnes ferme libri declarant. Quamobrem satis habui unum interim exemplum promere. Itaque verba posui Varronis e libro rerum humanarum primo, cuius principium hoc est: "Praxiteles, qui propter artificium egregium nemini est paulum modo humaniori ignotus". "Humaniori" inquit non ita, ut vulgo dicitur, facili et tractabili et benivolo, tametsi rudis litterarum sit - hoc enim cum sententia nequaquam convenit -, sed eruditiori doctiorique, qui Praxitelem, quid fuerit, et ex libris et ex historia cognoverit.


Quelli che hanno creato le parole latine e quelli che le hanno usate nel modo corretto hanno inteso il termine humanitas non così come lo intende la gente comune e così come da parte dei Greci viene usato quello di "filantropia" che significa una generica propensione e benevolenza nei confronti di tutti gli uomini, ma hanno chiamato col termine di humanitas più o meno quello che i Greci chiamano paideia e noi educazione e formazione nell’ambito delle arti liberali. Proprio quelli che autenticamente le desiderano e ricercano sono di gran lunga i più "umani". Infatti tra tutti gli esseri viventi all’uomo soltanto è stata data la prerogativa di interessarsi e applicarsi a questo ambito della conoscenza e per questo è stata chiamata humanitas. Quasi tutti i libri poi dimostrano che in questo senso gli antichi usarono tale parola e primi fra tutti M. Varrone e Marco Tullio, perciò sono convinto che basti a questo punto proporre un unico esempio. Pertanto ho riportato le parole di Varrone tratte dal primo libro delle Antichità romane, il cui inizio suona così: "Prassitele, che a causa della sua straordinaria capacità artistica non è sconosciuto a nessuno che anche solo un po’ sia dotato di humanitas". Ha detto "dotato di humanitas", non nel senso comune, cioè come disponibile, trattabile e benevolo per quanto privo di cultura , ma dotato di una certa istruzione e cultura, tale da sapere, ricavandolo e dai libri e dalla storia, chi era Prassitele.

Aulo Gellio - Noctes Atticae - Liber VI

Aulo Gellio

Noctes Atticae

Liber VI

I - Storia ammirevole desunta dagli Annali di Publio Africano Maggiore

Quod de Olympiade, Philippi regis uxore, Alexandri matre, in historia Graeca scriptum est, id de P. quoque Scipionis matre, qui prior Africanus appellatus est, memoriae datum est. Nam et C. Oppius et Iulius Hyginus aliique, qui de vita et rebus Africani scripserunt, matrem eius diu sterilem existimatam tradunt, P. quoque Scipionem, cum quo nupta erat, liberos desperavisse. Postea in cubiculo atque in lecto mulieris, cum absente marito cubans sola condormisset, visum repente esse iuxta eam cubare ingentem anguem eumque his, qui viderant, territis et clamantibus elapsum inveniri non quisse. Id ipsum P. Scipionem ad haruspices retulisse; eos sacrificio facto respondisse fore, ut liberi gignerentur, neque multis diebus, postquam ille anguis in lecto visus est, mulierem coepisse concepti fetus signa atque sensum pati; exinde mense decimo peperisse natumque esse hunc P. Africanum, qui Hannibalem et Carthaginienses in Africa bello Poenico secundo vicit. [...]


Quello che è scritto nella storia greca di Olimpiade, madre di Alessandro, è dato in memoria anche per la madre di Publio Scipione, che per primo fu chiamato l'Africano. Infatti Caio Oppio, Giulio Igino e altri, che scrissero sulla vita e sugli affari dell'Africano, raccontano che sua madre sterile fu ritenuta sterile per molto tempo, e che Publio Scipione, con cui era sposata, avesse perso la speranza di avere figli. Tempo dopo, quando la moglie giaceva sola nel letto, dormendo profondamente, senza il marito, fu visto dormire accanto a lei un enorme serpente e, quando quelli che lo avevano visto urlarono atterriti, sparì e nessuno poté trovarlo. Publio Scipione stesso espose questo fatto agli auruspici, che, fatto il sacrificio, risposero che sarebbe nato un figlio. Infatti non molti giorni dopo che quel serpente fu visto nel letto, la moglie iniziò a patire i sintomi della gravidanza; quindi il decimo mese partorì questo Publio Africano, che vinse Annibale e i Cartaginesi nella seconda guerra punica. [...]

Aulo Gellio - Noctes Atticae - Liber IV

Aulo Gellio

Noctes Atticae

Liber IV

XVIII - Un gesto memorabile di Scipione l'Africano

[...] Item aliud est factum eius praeclarum. Petilii quidam tribuni plebis a M., ut aiunt, Catone, inimico Scipionis, comparati in eum atque inmissi desiderabant in senatu instantissime, ut pecuniae Antiochinae praedaeque in eo bello captae rationem redderet; fuerat enim L. Scipioni Asiatico, fratri suo, imperatori in ea provincia legatus. Ibi Scipio exsurgit et prolato e sinu togae libro rationes in eo scriptas esse dixit omnis pecuniae omnisque praedae; illatum, ut palam recitaretur et ad aerarium deferretur. "Sed enim id iam non faciam" inquit "nec me ipse afficiam contumelia eumque librum statim coram discidit suis manibus et concerpsit aegre passus, quod, cui salus imperii ac reipublicae accepta ferri deberet, rationem pecuniae praedaticiae posceretur.
[...] Di lui è da rimarcare allo stesso modo un altro episodio. Certi Petilii, tribuni della plebe, a quel che si dice sobillati e spinti contro di lui da M. Catone, nemico di Scipione, chiedevano con grande insistenza in senato che egli facesse il rendiconto del denaro di Antioco e del bottino preso in quella guerra; infatti egli era stato luogotenente di suo fratello L. Scipione Asiatico, comandante in capo in quella provincia. Allora Scipione si alzò e, tirato fuori da un lembo della veste un libro disse che lì erano annotate tutte le somme di denaro e il bottino ; disse poi che quel libro era stato da lui portato proprio per essere letto di fronte a tutti e messo nell’erario. "Ma ora non lo farò più – disse – e non mi disonorerò da me stesso", e immediatamente con le sue stesse mani davanti a tutti strappò il libro e lo ridusse a pezzi, perché non riusciva a sopportare il fatto che si chiedesse di rendere conto del danaro facente parte della preda di guerra a chi doveva essere attribuita la conquista della salvezza del dominio e dello Stato romano.

Aulo Gellio - Noctes Atticae - Liber III

Aulo Gellio

Noctes Atticae

Liber III

XV - Anche la gioia può essere causa di morte

Exstare in litteris perque hominum memorias traditum, quod repente multis mortem attulit gaudium ingens insperatum interclusa anima et vim magni novique motus non sustinente. Cognito repente insperato gaudio exspirasse animam refert Aristoteles philosophus Polycritam, nobilem feminam Naxo insula. Philippides quoque, comoediarum poeta haut ignobilis, aetate iam edita, cum in certamine poetarum praeter spem vicisset et laetissime gauderet, inter illud gaudium repente mortuus est. De Rhodio etiam Diagora celebrata historia est. Is Diagoras tris filios adulescentis habuit, unum pugilem, alterum pancratiasten, tertium luctatorem. Eos omnis vidit vincere coronarique Olympiae eodem die et, cum ibi cum tres adulescentes amplexi coronis suis in caput patris positis saviarentur, cum populus gratulabundus flores undique in eum iaceret, ibidem in stadio inspectante populo in osculis atque in manibus filiorum animam efflavit. Praeterea in nostris annalibus scriptum legimus, qua tempestate apud Cannas exercitus populi Romani caesus est, anum matrem nuntio de morte filii adlato luctu atque maerore affectam esse; sed is nuntius non verus fuit, atque is adulescens non diu post ex ea pugna in urbem redit: anus repente filio viso copia atque turba et quasi ruina incidentis inopinati gaudii oppressa exanimataque est.

È documentato in letteratura ed è arrivato tramite le memorie degli uomini il fatto che una grande gioia inapettata porta molti alla morte improvvisa, con l'anima rotta e che non sostiene la forza di una grande e nuova commozione. Il filosofo Aristotele racconta che Policrita, nobile donna dell'isola di Nasso, rese l'anima all'improvviso per essere venuta a conoscenza di una gioia insperata. Anche Filippide, poeta non malvagio di commedie, avendo vinto in una gara di poeti oltre la speranza e rallegrandosi moltissimo, morì all'improvviso durante questa gioia. È anche risaputa la storia di Diagora di Rodi. Questo Diagora ebbe tre figli adolescenti, uno pugile, un altro pancraziaste e il terzo lottatore. Li vide tutti vincere ed essere incoronati ad Olimpia nello stesso giorno e, mentre lì i tre giovani dopo aver messo le loro corone sulla testa del padre lo baciavano e il popolo congratulandosi gettava fiori verso di lui da ogni parte, nello stesso momento morì nello stadio sotto gli occhi del popolo tra i baci e nelle mani dei figli. Inoltre nei nostri annali troviamo scritto che nel momento in cui l’esercito del popolo romano fu sbaragliato presso Canne una vecchia madre una volta riferita la notizia della morte del figlio si addolorò e si rattristò; ma questa notizia non fu vera e il giovane non molto dopo tornò in città da quella battaglia: la vecchia, visto il figlio all'improvviso, fu schiacciata e uccisa dall'abbondanza, dalla foga e quasi dalla distruttività dell'avvenuta gioia inattesa.

Aulo Gellio - Noctes Atticae - Liber I

Aulo Gellio

Noctes Atticae

Liber I
X
VII - Socrate e Santippe

Xantippe, Socratis philosophi uxor, morosa admodum fuisse dicitur, et iurgiosa irarumque et molestiarum muliebrium per diem perque noctem scatebat. Has eius intemperies in maritum Alcibiades demiratus interrogavit Socraten, quaenam ratio esset, cur mulierem tam acerbam domo non exigeret. "Quoniam", inquit Socrates, "cum illam domi talem perpetior, insuesco et exerceor, ut ceterorum quoque foris petulantiam et iniuriam facilius feram". [...]

Si dice che Santippe, moglie del filosofo Socrate, fosse molto scontrosa e litigiosa, e piena di giorno e di notte di ira e molestie tipicamente femminili. Sorpreso di queste sue stravaganze Alcibiade interrogò al marito Socrate se ci fosse qualche ragione del perchè non avesse mandato via di casa una moglie così acerba. "Poichè" disse Socrate "quando tollero quel tale siffatto in casa, mi abituo e mi esercito a sopportare più agevolmente anche l'ingiustizia e l'insolenza di tutti gli altri fuori". [...]


XXIII - Papirio, un fanciullo ingegnoso

Historia de Papirio Praetextato dicta scriptaque est a M. Catone in oratione, qua usus est ad milites contra Galbam, cum multa quidem venustate atque luce atque munditia verborum. Ea Catonis verba huic prorsus commentario indidissem, si libri copia fuisset id temporis, cum haec dictavi. Quod si non virtutes dignitatesque verborum, sed rem ipsam scire quaeris, res ferme ad hunc modum est: mos antea senatoribus Romae fuit in curiam cum praetextatis filiis introire. Tum, cum in senatu res maior quaepiam consultata eaque in diem posterum prolata est, placuitque, ut eam rem, super qua tractavissent, ne quis enuntiaret, priusquam decreta esset, mater Papirii pueri, qui cum parente suo in curia fuerat, percontata est filium, quidnam in senatu patres egissent. Puer respondit tacendum esse neque id dici licere. Mulier fit audiendi cupidior; secretum rei et silentium pueri animum eius ad inquirendum everberat: quaerit igitur compressius violentiusque. Tum puer matre urgente lepidi atque festivi mendacii consilium capit. Actum in senatu dixit, utrum videretur utilius exque republica esse, unusne ut duas uxores haberet, an ut una apud duos nupta esset. Hoc illa ubi audivit, animus compavescit, domo trepidans egreditur ad ceteras matronas. Pervenit ad senatum postridie matrum familias caterva; lacrimantes atque obsecrantes orant, una potius ut duobus nupta fieret, quam ut uni duae. Senatores ingredientes in curiam, quae illa mulierum intemperies et quid sibi postulatio istaec vellet, mirabantur. Puer Papirius in medium curiae progressus, quid mater audire institisset, quid ipse matri dixisset, rem, sicut fuerat, denarrat. Senatus fidem atque ingenium pueri exosculatur, consultum facit, uti posthac pueri cum patribus in curiam ne introeant, praeter ille unus Papirius, atque puero postea cognomentum honoris gratia inditum "Praetextatus" ob tacendi loquendique in aetate praetextae prudentiam.

La storia di Papirio Pretestato è stata raccontata e scritta da Marco Catone nell'orazione che fece ai soldati contro Galba, con certamente molta eleganza e splendore e raffinatezza di linguaggio. In questo diario avrei riportato direttamente queste parole di Catone, se, quando ho dettato queste cose, avessi avuto una copia del libro di quell'epoca. Ma se non mi chiedi il valore e la dignità delle parole, ma la conoscenza del fatto in sé, la storia è all'incirca così: prima era usanza dei senatori di Roma di entrare in senato coi figli che ancora indossavano la toga pretesta. Allora, quando in senato fu discussa una faccenda piuttosto importante e fu rinviata al giorno successivo, e si decise che nessuno dovesse parlare della faccenda su cui stavano discutendo prima che fosse stata deliberata, la madre del giovane Papirio, che era stato in senato con suo padre, interrogò il figlio su cosa mai i senatori avessero discusso in senato. Il ragazzo rispose che ciò doveva essere taciuto e non era lecito fosse detto. La donna diventa più desiderosa di sentire; la segretezza della cosa e il silenzio del ragazzo invitò il suo animo ad indagare: chiede dunque più insistentemente e più violentemente. Allora il ragazzo siccome la madre lo opprimeva decise di dire una bugia arguta e divertente. Disse che in senato si era discusso se sembrasse più utile e fosse più nell'interesse dello stato se uno avesse due mogli o se una fosse sposa di due. Quando quella udì ciò, si impaurì, uscì di casa tremante per andare dalle altre signore. Accorse in senato il giorno dopo una folla di madri di famiglia; piangendo e supplicando pregano che una donna potesse essere in sposa a due invece che due donne a uno. I senatori che entravano in curia si stupivano di tale insubordinazione di donne, e di che cosa quella petizione lì volesse da loro. Il giovane Papirio, avanzato al centro della curia, racconta che cosa la madre aveva stabilito di sentire, e che cosa lui avesse detto alla madre, insomma la storia così com'era stata. Il senato loda la lealtà e l'ingegno del ragazzo, prende la decisione che da quel momento in poi i ragazzi non potessero entrare in senato con i genitori, tranne quel Papirio, e in seguito fu dato al ragazzo in onore il cognome "Pretestato" per la prudenza nel tacere e nel parlare già in età pretesta

XXVI - Plutarco e il suo servo

[...] «Plutarchus, inquit, servo suo, nequam homini et contumaci, sed libris disputationibusque philosophiae aures imbutas habenti, tunicam detrahi ob nescio quod delictum caedique eum loro iussit. Coeperat verberari et obloquebatur non meruisse, ut vapulet; nihil mali, nihil sceleris admisisse. Postremo vociferari inter vapulandum incipit neque iam querimonias aut gemitus eiulatusque facere, sed verba seria et obiurgatoria: non ita esse Plutarchum, ut philosophum deceret; irasci turpe esse; saepe eum de malo irae dissertavisse, librum quoque De ira pulcherrimum conscripsisse; his omnibus, quae in eo libro scripta sint, nequaquam convenire, quod provolutus effususque in iram plurimis se plagis multaret. Tum Plutarchus lente et lemter: "Quid autem, inquit, verbero, nunc ego tibi irasci videor? Ex vultune meo an ex voce an ex colore an etiam ex verbis correptum esse me ira intellegis? Mihi quidem neque oculi, opinor, truces sunt neque os turbidum, neque immaniter clamo neque in spumam ruboremve effervesco neque pudenda dico aut paenitenda neque omnino trepido ira et gestio. Haec enim omnia, si ignoras, signa esse irarum solent". Et simul ad eum, qui caedebat, conversus: "Interini, inquit, dum ego atque hic disputamus, tu hoc age"». [...]

[...] «Plutarco , disse , ad un suo servo, uomo disonesto e arrogante, ma che aveva le orecchie imbevute di testi e discussioni di filosofia, ordinò che fosse tolta di dosso la tunica per non so quale colpa e che fosse frustato. Aveva cominciato appunto ad essere frustato e protestava di non essersi meritato di essere battuto, dicendo che non aveva fatto niente di male, nessun delitto. Alla fine, mentre veniva battuto, si mise a gridare, ma non più ad emettere lamenti o gemiti e ululati, ma a dire parole severe e di rimprovero: diceva cioè che Plutarco non agiva così come conveniva ad un filosofo, che adirarsi era vergognoso, che lui più volte aveva discusso sui danni dell’ira, che aveva persino scritto un libro bellissimo sul dominio dell’ira; a tutto quello che risultava scritto in quel libro non si addiceva affatto che lui lo punisse con botte a non finire lasciandosi trascinare dall’ira. Allora Plutarco, con tranquillità e calma ribatté: "Che, furfante? Ti pare che adesso io sia in preda all’ira? Lo deduci forse dalla mia espressione del volto o dal tono della voce o dal colorito o anche dalle parole? Non ho davvero, credo, gli occhi cupi né l’espressione torva né grido in modo disumano né ribollo sbavando o infiammandomi e non dico cose di cui ci si debba vergognare o pentire e neppure per effetto dell’ira fremo né gesticolo. Se tu non lo sai, sono tutti questi di solito i segni dell’ira". E nello stesso tempo rivolto a colui che lo frustava disse: “Tu nel frattempo, mentre io e lui stiamo a discutere, fa’ quello che devi fare». [...]