Piccolo aiuto in latino...

Spero che questo blog possa esservi utile per tradurre alcune delle "noiose" versioni di latino!
Mi auguro che troverete ciò che fa per voi...
In bocca al lupo!!!

Come trovare le versioni...

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Grazie per la collaborazione!!

Floro - Epitome

Floro - Epitome

Liber I
III - Passaggio da monarchia a consolato

Igitur Bruto Collatinoque ducibus et auctoribus, quibus ultionem sui moriens matrona mandaverat, populus Romanus ad vindicandum libertatis ac pudicitiae decus quodam quasi instinctu deorum concitatus regem repente destituit, bona diripit, agrum Marti suo consecrat, imperium in eosdem libertatis suae vindices transfert, mutato tamen et iure et nomine. Quippe ex perpetuo annuum placuit, ex singulari duplex, ne potestas solitudine vel mora corrumperetur, consulesque appellavit pro regibus, ut consulere civibus suis debere meminisset. Tantumque libertatis novae gaudium incesserat, ut vix mutati status fidem caperent alterumque ex consulibus, Lucretiae maritum, tantum ob nomen et genus regium fascibus abrogatis urbe dimitterent. Itaque substitutus Horatius Publicola ex summo studio adnixus est ad augendam liberi populi maiestatem. Nam et fasces ei pro contione submisit, et ius provocationis adversus ipsos dedit, et ne specie arcis offenderet, eminentis aedis suas in plana submisit. Brutus vero favori civium etiam domus suae clade et parricidio velificatus est. Quippe cum studere revocandis in urbem regibus liberos suos comperisset, protraxit in forum et contione media virgis cecidit securique percussit, ut plane publicus parens in locum liberorum adoptasse sibi populum videretur.
Pertanto, sotto la guida e il comando di Bruto e di Collatino, a cui la matrona morente aveva affidato la sua vendetta, il popolo romano, spinto a rivendicare la libertà e quindi la dignità per così dire da un’ispirazione divina, destituì il re di colpo, gli tolse il patrimonio, consacrò il territorio a Marte, suo patrono, trasferì il potere a quegli stessi che avevano rivendicato la sua libertà, cambiando sia la legislazione che il nome (del regime). Infatti, il potere da eterno che era venne stabilito annuale, da individuale doppio, per evitare che degenerasse perché detenuto da uno solo o perché troppo a lungo nelle sue mani, e (il popolo romano) chiamò chi esercitava il potere consoli invece che re, perché tenessero a mente che dovevano pensare al bene dei loro concittadini. Ed era subentrata tanta soddisfazione per la nuova libertà che a malapena potevano credere al cambiamento di situazione e uno dei due consoli, marito di Lucrezia, soltanto per il suo nome e la sua stirpe imparentata coi re lo fecero andare via da Roma, dopo che gli erano stati tolti i fasci del potere. E così Valerio Publicola, che era stato messo al suo posto, si dette da fare con intenso zelo per accrescere l’autorità del popolo libero. Infatti, a lui trasferì il potere davanti all’assemblea popolare e concesse il diritto di appello proprio contro questo potere e, per non urtare la suscettibilità con la posizione elevata sulla rocca, trasferì la sua casa, che si trovava in alto, in pianura. Bruto da parte sua partì col vento in poppa per riconquistare il favore dei suoi concittadini anche a prezzo della rovina e del tradimento della sua famiglia. Infatti, avendo scoperto che i suoi figli cercavano di far tornare i re a Roma, li trascinò nel foro e in mezzo all’assemblea popolare li torturò con le verghe e li giustiziò, affinché fosse assolutamente chiaro che lui genitore di tutti aveva adottato al posto dei suoi figli il popolo.

Columella - De arboribus

Columella - De arboribus
XXVIII - Del citiso

Cytisum, quod Graeci aut zeas aut carnicin aut trypheren vocant, quam plurimum habere expedit, quod gallinis, apibus, ovibus, capris, bubus quoque et omni generi pecudum utilissimum est, quod ex eo cito pinguescitet lactis plurimum praebet ovibus, [...]. Praeterea in quolibet agro quamvis acerrimo celeriter conprehendit omnemque iniuriam sine noxa patitur.
Il citiso, che i Greci chiamano zea, o carnice, o trifere, che conviene tenere in grossa considerazione, poiché è utilissimo alle galline, alle api, alle capre, anche ai buoi e ad ogni genere di bestiame, che con questo ingrassa velocemente, e offre più latte alle pecore [...]. In più attecchisce velocemente dappertutto in qualsiasi giardino per quanto sia arido e sopporta ogni violenza senza malattia.

Catone - Orationes (Frammenti)

Catone - Orationes (Frammenti)


Ego iam a principio in parsimonia atque in duritia atque in industria omnem adulescentiam meam, abstinui agro colendo, saxis Sabinis, silicibus repastinandis atque conserendis.

Io fin dal principio regolai tutta la mia giovinezza secondo una severa disciplina, nella parsimonia, nella durezza e nell’operosità, coltivando i campi, sui sassi della Sabina, scavando e seminando tra le pietre.



Quum essem in provincia legatus, quamplures ad praetores et consules vinum honorarium dabant: numquam accepi, ne privatus quidem.


Quando ricoprivo l'incarico di legato nella provincia, sebbene molti offrissero del vino, a titolo d'onore, ai pretori e ai consoli, io non l'accettai mai, neppure come privato cittadino.

Augusto - Res Gestae (Monumentum Ancyranum)

Augusto - Res Gestae (Monumentum Ancyranum)

XI

Aram Fortunae Reducis ante aedes Honoris et Virtutis ad portam Capenam pro reditu meo senatus consacravit, in qua pontifices et virgines Vestales anniversarium sacrificium facere iussit eo die quo, consulibus Q. Lucretio et M. Vinicio, in urbem ex Syria redieram, et diem Augustalia ex cognomine nostro appellavit.
Per il mio ritorno il senato consacrò l'Altare della Fortuna Reduce davanti al tempio dell'Onore e della Virtù nella via Appia, nel quale ordinò che i sommi sacerdoti e le vergini Vestali facessero un sacrificio per l'anniversario nello stesso giorno in cui ero ritornato dalla Siria a Roma, sotto il consolato di Lucrezio e Vincio, e chiamò il giorno dell'Augustalia dal nostro omonimo.
XII

Ex senatus auctoritate pars praetorum et tribunorum plebi cum consule Q. Lucretio et principibus viris obviam mihi missa est in Campaniam, qui honos ad hoc tempus nemim praeter me est decretus. Cum ex Hispania Galliaque, rebus in iis provincis prospere gestis, Romam redi, Ti. Nerone P. Qintilio consulibus, aram Pacis Augustae senatus pro reditu meo consacrandam censuit ad campum Martium, in qua magistratus et sacerdotes virginesque Vestales anniversarium sacrificium facere iussit.

Per volontà del senato una parte di pretori e tribuni della plebe con il console Lucrezio e gli uomini con i soldati mi furono mandati incontro in Campania, il cui onore fino ad ora non era stato decretato a nessuno eccetto me. Quando ritornai dalla Spagna e dalla Gallia a Roma, compiute imprese in queste provincie, sotto i consoli Tiberio Nerone e Publio Quintilio, il senato ordinò che doveva essere costruito l'altare della Pace Reduce di Augusto per il mio ritorno nel campo Marzio, sul quale ordinò che i magistrati, i sacerdoti e le vergini Vestali facessero il sacrificio annuale.


XIII

Ianum Quinnum, quem claussum esse maiores nostri voluerunt cum per totum imperium populi Romam terra marique esset parta victoriis pax, cum priusquam nascerer, a condita urbe bis ommno clausum fuisse prodatur memoriae, ter me principe senatus claudendum esse censuit.

Il senato deliberò che il tempio di Giano doveva essere chiuso per la terza volta, sotto il mio principato che che i nostri antenati vollero fosse chiuso, quando la pace fosse stata realizzata in tutto l'impero Romano, per terra e per mare, grazie alle vittorie e prima che io nascessi si tramandava che era stato chiuso dalla fonondazione della città in totale due volte.

Apuleio - Apologia

Apuleio - Apologia

XV - Lo specchio e l'uomo (Maturità classica 1965)

An turpe arbitraris formam suam spectaculo assiduo explorare? An non Socrates philosophus ultro etiam suasisse fertur discipulis suis, crebro ut semet in speculo contemplarentur, ut qui eorum foret pulchritudine sibi complacitus, impendio procuraret ne dignitatem corporis malis moribus dedecoraret, qui vero minus se commendabilem forma putaret, sedulo operam daret ut virtutis laude turpitudinem tegeret? Adeo vir omnium sapientissimus speculo etiam ad disciplinam morum utebatur. Demostenen vero, primarium dicendi artificem, quis est qui non sciat semper ante speculum quasi ante magistrum causas meditatum? Ita ille summus orator cum a Platone philosopho facundiam ausisset, ab Eubulide dialectico argumentationes edidicisset, novissimam pronuntiandi congruentiam ab speculo petivit.

Pensi forse che sia vergogna scrutare con una analisi assidua il proprio aspetto esteriore? Non si dice forse che il filosofo Socrate anche lui di sua iniziativa persuadesse i suoi allievi a guardarsi spesso nello specchio, affinché chi tra loro si compiacesse della sua bellezza badasse attentamente a non disonorare la bellezza fisica con un comportamento negativo, chi invece si giudicasse meno bello esteriormente si sforzasse di nascondere la sua bruttezza con il merito della virtù? A tal punto quell’uomo che era il più saggio di tutti si avvaleva anche dello specchio per insegnare la disciplina dei costumi. Quanto poi a Demostene, il più grande artista della parola, chi c’è che non sa che studiava le orazioni che doveva pronunciare sempre davanti allo specchio come davanti ad un maestro? Così quel sommo oratore dopo aver attinto dal filosofo Platone l’eloquenza, e aver appreso da Eubulide dialettico le qualità argomentative, chiese allo specchio alla fine la capacità di pronunciare l’orazione in modo armonico.

Ampelio - Liber Memorialis

Ampelio - Liber Memorialis

VI - De orbe terrarum (Del mondo terrestre)

Orbis terrarum qui sub caelo est quattuor regionibus incolitur. Una pars eius est in qua nos habitamus; altera huic contraria, quam qui incolunt vocantur anticthones; quarum inferiores duae ex contrario harum sitae, quas qui incolunt vocantur antipodes. Orbis terrarum quem nos colimus in tres partes dividitur, totidemque nomina: Asia, quae est inter Tanain et Nilum; Libya, quae est inter Nilum et Gaditanum sinum; Europa, quae est inter fretum et Tanain. In Asia clarissimae gentes: Indi, Seres, Persae, Medi, Parthi, Arabes, Bithyni, Phryges, Cappadoces, Cilices, Syri, Lydi. In Europa clarissimae gentes: Scythae, Sarmatae, Germani, Daci, Moesi, Thraci, Macedones, Dalmatae, Pannoni, Illyrici, Graeci, Itali, Galli, Spani. In Libya gentes clarissimae: Aethiopes, Mauri, Numidae, Poeni, Gaetuli, Garamantes, Nasamones, Aegyptii. Clarissimi montes in orbe terrarum: Caucasus in Scythia, Emodus in India, Libanus in Syria, Olympus in Macedonia, Hymettus in Attica, Taygetus Lacedaemonia, Cithaeron et Helicon in Boetia, Parnasos [et] Acroceraunia in Epiro, Maenalus in Arcadia, Apenninus in Italia, Eryx in Sicilia, Alpes inter Galliam , Pyrenaeus inter Galliam et Spaniam, Athlans in Africa, Calpe in freto Oceani. Clarissima flumina in orbe terrarum: Indus Ganges Hydaspes in India, Araxes in Armenia, Thermodon et Phasis in Colchide, Tanais in Scythia, Strymon et Hebrus in Thracia, Sperchios in Thessalia, Hermus et Pactolus auriferi Maeander et Caystrus in Lydia, Cydnus in Cilicia, Orontes in Syria, Simois et Xanthus in Phrygia, Eurotas Lacedaemone, Alpheus in Elide, Ladon in Arcadia, Achelous et Inachus in Epiro, Savus et Danubius qui idem Ister cognominatur in Moesia, Eridanus et Tiberinus in Italia, Timavus in Illyrico, Rhodanus in Gallia, Hiberus et Baetis in Spania, Bagrada in Numidia, Triton in Gaetulia, Nilus in Aegypto, Tigris et Eufrates in Parthia, Rhenus in Germania. Clarissimae insulae: in mari nostro duodecim: Sicilia, Sardinia, Crete, Cypros, Euboea, Lesbos, Rhodos, duae Baleares, Ebusus, Corsica, Gades; in Oceano: ad orientem Taprobane, ad occidentem Brittannia, ad septentrionem Thyle, ad meridiem Insulae Fortunatae; praeter has in Aegaeo mari Cyclades undecim: Delos, Gyaros, Myconos, Andros, Paros, Olearos, Tenos, Cythnos, Melos, Naxos, Donusa; praeter has Sporades innumerabiles, ceterum celeberrimae Aegina, Salamina, Coos, Chios, Lemnos, Samothracia; in Ionio: Echinades, Strophades, Ithace, Cephalenia, Zacynthos; in Adriatico Crateae circiter mille; in Siculo Aeoliae octo; in Gallico Stoechades tres; in Syrtibus Cercina et Menix et Girba.

Il mondo che è sotto il cielo è abitato in quattro regioni. Una sua parte è quella in cui abitiamo noi; l'altra, opposta a questa, e coloro che la abitano si chiamano antictoni; e inferiori a queste due poste dalla parte opposta di queste, e quelli che le abitano si chiamano antipodi. Il mondo che noi abitiamo si divide in tre parti, e (ha) altrettanti nomi: Asia, che è tra il Tanai e il Nilo; la Libia, che è tra il Nilo e il golfo gaditano; l'Europa è fra lo stretto e il Tanai. In Asia i popoli più famosi (sono): Indi, Seri, Persiani, Medi, Parti, Arabi, Bitini, Frigi, Cappadoci, Cilici, Siri e Lidi. In Europa i popoli più famoisi (sono): Sciti, Sarmati, Germani, Daci, Mesi, Traci, Macedoni, Dalmati, Pannoni, Illiri, Spagnoli, Greci, Italici, Galli. In Libia i popoli più famoisi (sono): Etiopi, Mauri, Numidi, Punici, Getuli, Garamanti, Nasamoni, Egizi. I monti più famosi del mondo sono: il Caucaso in Scizia, l'Emodo in India, il Libano in Siria, l'Olimpo in Macedonia, l'Imetto in Attica, il Taigeto nella zona di Sparta, il Citerone e l'Elicona in Beozia, il Parnaso in Focide, l'Acroceraunia in Epiro, il Menalo in Arcadia, l'Apennino in Italia, l'Erice in Sicilia, le Alpi tra la Gallia e l'Italia, i Pirenei tra la Gallia e la Spagna, l'Atlante in Africa, il Calpe sullo stretto dell'Oceano. I fiumi più famosi del mondo: l'Indo, il Gange e l'Idaspe in India, l'Arasse in Armenia, il Termodonte e il Fasi in Colchide, il Tanai in Scizia, lo Strimone e l'Ebro in Tracia, lo Sperchio in Tessaglia, l'Ermo e il Pattolo che producono oro, il Meandro e il Caistro in Lidia, il Cidno in Cilicia, l'Oronte in Siria, il Simoenta e lo Xanto in Frigia, l'Eurota a Sparta, l'Alfeo in Elide, il Ladone in Arcadia, l'Achelao e l'Inaco in Epiro, la Sava e il Danubio che è soprannominato anche Ister in Mesia, l'Eridano e il Tevere in Italia, il Timavo in Illiria, il Rodano in Gallia, l'Ebro e il Beti in Spagna, il Bagrada in Numidia, il Tritone in Getulia, il Nilo in Egitto, il Tigri e l'Eufrate in Partia, il Reno in Germania. Le isole più famose: nel Mare Nostrum (Mediterraneo) dodici: Sicilia, Sardegna, Creta, Cipro, Eubea, Lesbo, Rodi, due Baleari, Ebuso, Corsica, Cadice; nell'Oceano: ad oriente Tabropane, a occidente la Britannia, a settentrione Tule, a meridione le Isole Fortunate; oltre a questo nel mar Egeo (ci sono) undici Cicladi: Delo, Giaro, Micono, Andro, Paro, Olearo, Teno, Cito, Melo, Nasso, Donusa; oltre a queste (ci sono) innumerevoli Sporadi, e tra le altre le più famose (sono) Egine, Salamina, Coo, Chio, Lemno, Samotracia; nel (mar) Ionio: le Echinadi, le Strofadi, Itaca, Cefalonia, Zacinto; nell'Adriatico circa mille Cratee; nel (mare) di Sicilia otto Eolie; nel (mare) Gallico tre Stecadi; nel (mar) dei Sirti Cercina e Menice e Girba.

Valerio Massimo - Facta et dicta memorabilia - Liber VIII

Valerio Massimo

Facta et dicta memorabilia

Liber VIII

cap. VII

Ext. 3 - Incontentabile amore di Platone per il sapere
Platon autem patriam Athenas, praeceptorem Socratem sortitus, et locum et hominem doctrinae fertilissimum, ingenii quoque divina instructus abundantia, cum omnium iam mortalium sapientissimus haberetur, eo quidem usque, ut, si ipse Iuppiter caelo descendisset, nec elegantiore nec beatiore facundia usurus videretur, Aegyptum peragravit, dum a sacerdotibus eius gentis geometriae multiplices numeros caelestium observationum rationem percipit. Quoque tempore a studiosis iuvenibus certatim Athenae Platonem doctorem quaerentibus petebantur, ipse Nili fluminis inexplicabiles ripas vastissimosque campos, [...] effusam barbariam et flexuosos fossarum ambitus Aegyptiorum senum discipulus lustrabat. Quo minus miror in Italiam transgressum, ut ab Archyta Tarenti, a Timaeo et Arione et Echecrate Locris Pythagorae praecepta et instituta acciperet: tanta enim vis, tanta copia litterarum undique colligenda erat, ut invicem per totum terrarum orbem dispergi et dilatari posset. Altero etiam et octogesimo anno decedens sub capite Sophronis mimos habuisse fertur. Sic ne extrema quidem eius hora agitatione studii vacua fuit.
Platone, scelta come patria Atene e come precettore Socrate entrambe ricchissimi di cultura, pure dotato di ingegno in abbondanza incomparabile, poiché era ormai considerato il più sapiente di tutti i mortali, a tal punto che, se Giove stesso fosse sceso dal cielo, non sarebbe sembrato che poteva servirsi di un'eloquenza né più elegante, né più felice, visitò l'Egitto, per imparare la scienza delle osservazioni dei cieli e i molteplici numeri della geometria dai sacerdoti di quel popolo. Nello stesso tempo (in cui) Atene era raggiunta da molti giovani studenti che facevano a gara a cercare il maestro Platone, (invece) lui stesso, il discepolo di vecchi giziani, esaminava le rive interminabili del fiume Nilo e i vastissimi campi, la distesa straniera e i percorsi flessuosi dei canali, in qualità di discepolo dei vecchi egiziani. Perciò non mi meraviglio tanto che andò in Italia, affinché ricevesse degli insegnamenti e delle massime di Pitagora da Archita di Taranto, da Timeo, da Arione e da Echecrate di Locri: infatti tanta doveva raccogliere da ogni parte una tale quantità e ricchezza di conoscienza, che potesse a sua volta seminare e diffondere per tutto il mondo. Si racconta che quando morì, tra l'ottantesimo anno e il secondo (a ottantun anni), tenesse sotto il guanciale le commedie di Sofrone. In questo modo sicuramente neppure la sua ultima ora fu libera dall'esercizio dello studio.

Valerio Massimo - Facta et dicta memorabilia - Liber VII

Valerio Massimo

Facta et dicta memorabilia

Liber VII

cap. II

Ext. I - Socrate

[...] Idem, cum Atheniensium scelerata dementia tristem de capite eius sententiam tulisset fortique animo et constanti vultu potionem veneni e manu carnificis accepisset, admoto iam labris poculo, uxore Xantippe inter fletum et lamentationem vociferante innocentem eum periturum, "Quid ergo?" inquit "nocenti mihi mori satius esse duxisti?" [...]

[...] Socrate, dopo che la scellerata follia degli Ateniesi portò alla triste sentenza riguardo la sua condanna di morte, e che, con animo coraggioso e volto impassibile, ricevette dalla mano del carnefice un filtro di veleno, mossa già la bocca al filtro, mentre la moglie Santippe proclamava tra le lacrime e il lamento che lui stava per morire innocente, disse: "Perché, dunque, pensavi che per me sarebbe meglio morire da colpevole?" [...]


Ext. VIII


Mirifice etiam Thales: nam interrogatus an facta hominum deos fallerent 'ne cogitata ' inquit, ut non solum manus, sed etiam mentes puras habere vellemus, cum secretis cogitationibus nostris caeleste numen adesse credidissemus.

Talete, chiestogli se le cose fatte dagli uomini ingannasero gli dei, rispose: "Neppure le cose pensate ", affinché volessimo avere non solo le mani pure, ma anche le menti, poiché credevamo che la divinità celeste partecipi ai nostri pensieri segreti.

Ext. IX

Ac ne quod sequitur quidem minus sapiens. Unicae filiae pater Themistoclen consulebat utrum eam pauperi, sed ornato, an locupleti parum probato conlocaret. Cui is 'malo' inquit 'virum pecunia quam pecuniam viro indigentem'. Quo dicto stultum monuit ut generum potius quam divitias generi legeret. [...]

Ma nemmeno ciò che segue è meno saggio. Il padre Temistocle pensava all'unica figlia se maritarla ad uno povero ma dignitoso oppure ad uno ricco ma poco onesto. Egli le disse: "Preferisco un uomo privo di denaro che denaro privo di uomo". Dopo aver detto ciò raccomandò di scegliere un genero sciocco piuttosto che le ricchezze del genero. [...]


Ext. XIII

Demadis quoque dictum sapiens: nolentibus enim Atheniensibus divinos honores Alexandro decernere 'Videte' inquit 'ne, dum caelum custoditis, terram amittatis'.

E’ saggio anche un detto di Demade: infatti agli Ateniesi che non volevano concedere onori divini ad Alessandro, disse: "Fate in modo che, mentre custodite il cielo, non perdiate la terra".


Cap. V

II - Una battuta inopportuna causa una sconfitta elettorale

P. autem Scipio Nasica togatae potentiae clarissimum lumen, qui consul Iugurthae bellum indixit, qui matrem Idaeam e Phrygiis sedibus ad nostras aras focosque migrantem sanctissimis manibus excepit, qui multas et pestiferas seditiones auctoritatis suae robore oppressit, quo principe senatus per aliquot annos gloriatus est, cum aedilitatem curulem adulescens peteret manumque cuiusdam rustico opere duratam more candidatorum tenacius adprehendisset, ioci gratia interrogavit eum num manibus solitus esset ambulare. Quod dictum a circumstantibus exceptum ad populum manavit causamque repulsae Scipioni attulit: omnes namque rusticae tribus paupertatem sibi ab eo exprobratam iudicantes iram suam adversus contumeliosam eius urbanitatem destrinxerunt. Igitur civitas nostra nobilium iuvenum ingenia ab insolentia revocando magnos et utiles cives fecit honoribusque non patiendo eos a scurris peti debitum auctoritatis pondus adiecit.

Ancora, Publio Scipione Nasica, famosissimo esempio di autorità romana, che da console dichiarò guerra a Giugurta, che con mani purissime portò dalle sedi frigie la madre Ida trasferendola nei nostri altari e nelle nostre case, che soffocò con la forza della sua autorità molte e rovinose rivolte, che per alcuni anni si vantò principe del senato, poiché un giovane chiedeva la carica di edile, dopo aver stretto la mano di qualcuno, resa dura dal lavoro agricolo, più tenacemente rispetto all'usanza dei candidati, per scherzo gli domandò se fosse solito camminare con le mani. Udito ciò dalla gente vicina la sentenza si diffuse al popolo e recò il motivo dell'insuccesso elettorale di Scipione: e infatti tutte le tribù rustiche, giudicando che da lui la povertà sarebbe stata rinfacciata loro, sguainarono la propria collera contro la sua offensiva mondanità. Così la nostra città, distogliendo dall'insolenza gli animi dei giovani nobili, ne fece dei grandi e utili cittadini, e non permettendo che le magistrature fossero intraprese da dei buffoni, diede loro il peso dell'autorità dovuto.

Valerio Massimo - Facta et dicta memorabilia - Liber VI

Valerio Massimo

Facta et dicta memorabilia

Liber VI

cap. V

Ext. II - Un piano utile, ma niente affatto giusto

[...] Cum saluberrimo consilio Themistocles migrare Athenienses in classem coegisset Xerxeque rege et copiis eius Graecia pulsis ruinas patriae in pristinum habitum reformaret et opes clandestinis molitionibus ad principatum Graeciae capessendum nutriret, in contiene dixit habere se rem deliberatione sua provisam, quam si fortuna ad effectum perduci passa esset, nihil maius aut potentius Atheniensi populo futurum, sed eam vulgari non oportere, postulavitque ut aliquis sibi, cui illam tacite exponeret, daretur. Datus est Aristides. Is postquam rem cognovit, classem illum Lacedaemoniorum, quae tota apud Gytheum subducta erat, velie incendere, ut ea consumpta dominatio maris ipsis cederet, processit ad cives et retulit Themistoclen ut utile consilium, ita minime iustum animo volvere. E vestigio universa contio quod aequum non videretur ne expedire quidem proclamavit ac protinus Themistoclen incepto iussit desistere.
[...] Dopo che Temistocle aveva spinto con una decisione più che utile gli Ateniesi a imbarcarsi e, una volta cacciati il re Serse e le sue truppe dalla Grecia, tentava di riportare allo stato iniziale le strutture rovinate della patria e intanto cercava con piani segreti di fomentare i mezzi finalizzati a conquistare il primato sulla Grecia, in assemblea disse che aveva in mente un progetto da lui stesso elaborato e se la sorte avesse permesso che si potesse realizzare, non ci sarebbe stato niente di più grande o di più potente del popolo ateniese, ma aggiunse anche che non era opportuno che il piano si divulgasse e chiese che gli si affiancasse qualcuno a cui poterlo esporre in segreto. Così per tale scopo gli fu assegnato Aristide. Egli, dopo essere venuto a conoscenza della cosa, e cioè che quello voleva incendiare la flotta degli Spartani, che era stata tutta trasportata presso il Giteo, in modo che una volta distrutta quella il potere sul mare venisse nelle loro mani, si presentò davanti ai concittadini e riferì che Temistocle aveva in mente un piano utile, ma niente affatto giusto. Subito tutto il popolo riunito disse ufficialmente che ciò che non sembrava giusto non era neanche utile e immediatamente ordinò a Temistocle di desistere dal suo progetto.

Valerio Massimo - Facta et dicta memorabilia - Liber IV

Valerio Massimo

Facta et dicta memorabilia

Liber IV
cap. VII

Ext. I - Damone e Finzia

Haeret animus in domesticis, sed aliena quoque bene facta referre Romanae urbis candor hortatur. Damon et Phintias Pythagoricae prudentiae sacris initiati tam fidelem inter se amicitiam iunxerant, ut, cum alterum ex his Dionysius Syracusanus interficere vellet, atque is tempus ab eo, quo prius quam periret domum profectus res suas ordinaret, impetravisset, alter vadem se pro reditu eius tyranno dare non dubitaret. Solutus erat periculo mortis qui modo gladio cervices subiectas habuerat: eidem caput suum subiecerat cui securo vivere licebat. Igitur omnes et in primis Dionysius novae atque ancipitis rei exitum speculabantur. Adpropinquante deinde finita die nec illo redeunte unus quisque stultitiae tam temerarium sponsorem damnabat. At is nihil se de amici constantia metuere praedicabat. Eodem autem momento et hora a Dionysio constituta et eam qui acceperat supervenit. Admiratus amborum animum tyrannus supplicium fidei remisit insuperque eos rogavit ut se in societatem amicitiae tertium sodalicii gradum mutua culturum benivolentia reciperent. Hascine vires amicitiae? Mortis contemptum ingenerare, vitae dulcedinem extinguere, crudelitatem mansuefacere, odium in amorem convertere, poenam beneficio pensare potuerunt. Quibus paene tantum venerationis quantum deorum inmortalium caerimoniis debetur: illis enim publica salus, his privata continetur, atque ut illarum aedes sacra domicilia, harum fida hominum pectora quasi quaedam sancto spiritu referta templa sunt.
Il mio animo pende dalla parte dei casi nazionali, ma il candore della città di Roma mi spinge a riportare correttamente anche i fatti esteri. Damone e Finzia, iniziati ai misteri della dottrina pitagorica, avevano stretto tra loro un'amicizia tanto stretta che, volendo Dionigi di Siracusa uccidere uno dei due, e avendo questo ottenuto da lui (Dionigi) il tempo per tornare in patria a sistemare i suoi affari prima di morire, l'altro non esitò a offrirsi al tiranno come garante per il ritorno dell'amico. Era liberato dal pericolo di morte uno che poco prima aveva il collo sotto la spada; alla stessa aveva accostato la propria testa uno che poteva vivere al sicuro. Tutti allora e per primo Dionigi osservavano l'esito del nuovo e incerto fatto. Avvicinandosi in seguito il giorno stabilito e non essendo quello ritornato, ciascuno tacciava di stupidità il garante così incosciente. Ma quello proclamava di non temere nulla riguardo la coerenza dell'amico. Infatti nello stesso momento arrivarono sia l'ora stabilita da Dionigi, sia colui che l'aveva accettata. Allora il tiranno, ammirando il carattere di entrambi, revocò la condanna per la (loro) fedeltà e inoltre chiese loro di accoglierlo nel vincolo di amicizia come un terzo gradino della compagnia (promettendo di) osservare l'affetto reciproco. Queste (sono) le forze dell'amicizia? Hanno potuto infondere il disprezzo della morte, far dimenticare la dolcezza della vita, rendere mansueta la crudeltà, mutare l'odio in amore, compensare la pena col beneficio. A queste andrebbe dovuta quasi la stessa venerazione che quella nelle cerimonie per gli dei immortali: a quelli infatti compete la salute di tutti, a queste (le forze dell'amicizia) la salute degli intimi, e come quelli hanno per sedi i sacri templi, di questi sono per cosi dire templi i cuori fedeli degli uomini, riempiti di un'anima divina

Cap. VIII

V - Tito Quizio Flaminio proclama la libertà dei Greci

[...] Philippo enim Macedoniae rege superato, cum ad Isthmicum spectaculum tota Graecia convenisset, T. Quintius Flaminius, tubae signo silentio facto, per praeconem haec verba recitari iussit: "Senatus populusque Romanus et T. Quintus Flamininus imperator omnes Graeciae urbes, quae sub dicione Philippi regis fuerunt, liberas atque immunes esse iubet". Quibus auditis, maximo et inopinato gaudio homines perculsi, primo veluti non audisse se quae audierant credentes, obticuerunt. Iterata deinde pronuntiatione praeconis, tanta cauelum clamoris alacritate compleverunt, ut certe constet aves, quae supervolabant, adtonitae paventesque decidisse. [...]
[...] Vinto Filippo re di macedonia, essendo tutta la Grecia riunita allo spettacolo dei giochi istimici, Tito Quinzio Flaminio, fatto silenzio con il segnale della tromba, comandò di recitare queste parole per mezzo di un araldo: "Il senato e il popolo romano e il generale Tito Quinzio Flaminio comanda a tutte le città greche, che erano sotto l'autorità di Filippo, di essere libere ed esenti da tributi". Udite queste parole, sorpresi da una gioia grandissima ed improvvisa, credendo all'inizio come se non avessero sentito quello che avevano sentito, ammutolirono. Finito poi il discorso dell'araldo, così grande ardore e clamore riempì il cielo, che si dice con certezza che gli uccelli, che volavano sopra, caddero storditi e spaventati. [...]
Cap. VIII

Ext. II - Un uomo estremamente generoso

Subnectam huic Acragantinum Gillian, quem propemodum ipsius liberalitatis praecordia constat habuisse. Erat opibus excellens, sed multo etiam animo quam divitiis locupletior semperque in eroganda potius quam in corripienda pecunia occupatus, adeo ut domus eius quasi quaedam munificentiae officina crederetur: illinc enim publicis usibus apta monumenta extruebantur, illinc grata populi oculis spectacula edebantur, illinc epularum magnifici apparatus labentique annonae subsidia oriebantur. Et cum haec universis, privatim alimenta inopia laborantibus, dotes virginibus paupertate pressis, subsidia detrimentorum incursu quassatis erogabantur. Hospites quoque cum urbanis penatibus tum etiam rusticis tectis benignissime excepti, uariis muneribus ornati dimittebantur. Quodam vero tempore D simul Gelensium equites vi tempestatis in possessiones suas conpulsos aluit ac vestivit. Quid multa? Non mortalem aliquem, sed propitiae Fortunae benignum esse diceres sinum. Ergo quod Gillias possidebat omnium quasi commune patrimonium erat. Pro cuius salute et incrementis cum Acragantina civitas tum etiam vicinae regiones votis excubabant. Conloca e contraria parte arcas inexorabilibus claustris obseratas, nonne praestantiorem aliquanto existimes illam inpensam quam hanc custodiam?

Un agrigentino di nome Gillia era straordinariamente ricco , ma molto più ricco d'animo che di ricchezze, al punto che la sua casa era quasi creduta una specie di officina di generosità: da lì venivano innalzati monumenti legati ad usi pubblici, venivano allestiti spettacoli graditi agli occhi del popolo, derivavano gli splendidi fasti dei banchetti e mezzi di sostegno. Gillia donava queste cose a tutti: concedeva privatamente beni alimentari a coloro che soffrivano la fame , doti alle vergini oppresse dalla povertà, aiuti a coloro che erano stati abbattuti dall'incombenza di danni. Anche gli ospiti, accolti come (sia) dalle case di città così anche(sia) dalle abitazioni di campagna molto bene, venivano congedati ornati di diversi doni. In un certo periodo nutrì e vestì allo stesso tempo cinquecento cavalieri di Gela, spinti dall'impeto della tempesta nei suoi possedimenti.Che dire di più? Non si sarebbe detto che fosse un mortale qualunque, ma un'abbondante tasca della propizia dea Fortuna. Quindi ciò che Gillia possedeva era quasi un patrimonio comune di tutti. Come la città di Agrigento così anche le regioni vicine avevano cura dei voti per la salute e gli sviluppi di questi (Gillia).

Valerio Massimo - Facta et dicta memorabilia - Liber I

Valerio Massimo

Facta et dicta memorabilia

Liber I
cap. VIII

Ext. IX - Poteri di oracoli e profezie

Eodem oraculo Macedonum rex Philippus admonitus ut a quadrigae violentia salutem suam custodiret, toto regno disiungi currus iussit eumque locum, qui in Boeotia Quadriga vocatur, semper vitavit. Nec tamen denuntiatum periculi genus effugit: nam Pausanias in capulo gladii, quo eum occidit, quadrigam habuit caelatam.
Poichè lo stesso oracolo ammonì il re macedone Filippo a difendere la sua salute dalla violenza della quadriga, il re decise di allontanare i carri da tutto il regno e sempre evitò il luogo che è chiamato Quadriga, in Beozia. Ma tuttavia il tipo dichiarato di pericolo non sfuggì: infatti Pausania (si dice) che nell'impugnatura della spada con cui lo uccise fosse scolpita una quadriga.
Ext. X

Quae tam pertinax necessitas in patre filio Alexandro consimilis apparuit: si quidem Callanus Indus sua sponte se ardenti rogo superiecturus, interpellatus ab eo ecquid aut mandaret aut dicere vellet, "Brevi te", inquit, "videbo": nec id sine causa, quia voluntarium eius e vita excessum rapida mors Alexandri subsecuta est.

Così tenace la necessità nel padre apparve del tutto simile nel figlio Alessandro: in realtà Callano Indo, prima di gettarsi di sua iniziativa nel fuoco ardente, interrogato da lui su cosa volesse affidare o dire, disse: "Tra breve ti rivedrò"; né ciò senza buon motivo, poiché alla fine volontaria della sua vita rapida seguì la morte di Alessandro.

Aulo Gellio - Noctes Atticae - Liber XV

Aulo Gellio

Noctes Atticae

Liber XV

XVI - Singolare morte di Milone di Crotone

Milo Crotoniensis, athleta inlustris, quem in chronicis scriptum est Olympiade LXII primum coronatum esse, exitum habuit e vita miserandum et mirandum. Cum iam natu grandis artem athleticam desisset iterque faceret forte solus in locis Italiae silvestribus, quercum vidit proxime viam patulis in parte media rimis hiantem. Tum experiri, credo, etiam tunc volens, an ullae sibi reliquae vires adessent, inmissis in cavernas arboris digitis diducere et rescindere quercum conatus est. Ac mediam quidem partem discidit divellitque; quercus autem in duas diducta partis, cum ille quasi perfecto, quod erat conixus, manus laxasset, cessante vi rediit in naturam manibusque eius retentis inclusisque stricta denuo et cohaesa dilacerandum hominem feris praebuit. [...]
Milone di Crotone, atleta illustre, di cui è scritto che fu incoronato vincitore nella 62ª olimpiade, ebbe dei risultati da una vita deplorevole e meravigliosa. Dopo che aveva rinunciato alla propria arte atletica per l'età già avanzata, mentre camminava per caso solo in regioni boscose d'Italia, vide una quercia vicinissima ad una strada, di cui i rami si aprivano nella parte centrale. Allora volle mettere alla prova le sue forze, introdusse le dita nelle fenditure dell'albero e tentò di dividere e rompere la quercia. E senza dubbio ruppe e svelse la parte centrale, poi aveva diviso la quercia in due parti, e con quella mano allargò. Pertanto, poiché la forza si era arrestata, la quercia ritornò alla conformazione naturale, ma trattenne e chiuse dentro le mani di lui e, unita nuovamente, mostrò agli animali il misero uomo e quelli lo lacerarono. [...]

Aulo Gellio - Noctes Atticae - Liber XIII

Aulo Gellio

Noctes Atticae

Liber XIII

XVII - Il significato di humanitas

Qui verba Latina fecerunt quique his probe usi sunt, "humanitatem" non id esse voluerunt, quod volgus existimat quodque a Graecis philanthropia dicitur et significat dexteritatem quandam benivolentiamque erga omnis homines promiscam, sed "humanitatem" appellaverunt id propemodum, quod Graeci paideian vocant, nos eruditionem institutionemque in bonas artis dicimus. Quas qui sinceriter cupiunt adpetuntque, hi sunt vel maxime humanissimi. Huius enim scientiae cura et disciplina ex universis animantibus uni homini datast idcircoque "humanitas" appellata est. Sic igitur eo verbo veteres esse usos et cumprimis M. Varronem Marcumque Tullium omnes ferme libri declarant. Quamobrem satis habui unum interim exemplum promere. Itaque verba posui Varronis e libro rerum humanarum primo, cuius principium hoc est: "Praxiteles, qui propter artificium egregium nemini est paulum modo humaniori ignotus". "Humaniori" inquit non ita, ut vulgo dicitur, facili et tractabili et benivolo, tametsi rudis litterarum sit - hoc enim cum sententia nequaquam convenit -, sed eruditiori doctiorique, qui Praxitelem, quid fuerit, et ex libris et ex historia cognoverit.


Quelli che hanno creato le parole latine e quelli che le hanno usate nel modo corretto hanno inteso il termine humanitas non così come lo intende la gente comune e così come da parte dei Greci viene usato quello di "filantropia" che significa una generica propensione e benevolenza nei confronti di tutti gli uomini, ma hanno chiamato col termine di humanitas più o meno quello che i Greci chiamano paideia e noi educazione e formazione nell’ambito delle arti liberali. Proprio quelli che autenticamente le desiderano e ricercano sono di gran lunga i più "umani". Infatti tra tutti gli esseri viventi all’uomo soltanto è stata data la prerogativa di interessarsi e applicarsi a questo ambito della conoscenza e per questo è stata chiamata humanitas. Quasi tutti i libri poi dimostrano che in questo senso gli antichi usarono tale parola e primi fra tutti M. Varrone e Marco Tullio, perciò sono convinto che basti a questo punto proporre un unico esempio. Pertanto ho riportato le parole di Varrone tratte dal primo libro delle Antichità romane, il cui inizio suona così: "Prassitele, che a causa della sua straordinaria capacità artistica non è sconosciuto a nessuno che anche solo un po’ sia dotato di humanitas". Ha detto "dotato di humanitas", non nel senso comune, cioè come disponibile, trattabile e benevolo per quanto privo di cultura , ma dotato di una certa istruzione e cultura, tale da sapere, ricavandolo e dai libri e dalla storia, chi era Prassitele.

Aulo Gellio - Noctes Atticae - Liber VI

Aulo Gellio

Noctes Atticae

Liber VI

I - Storia ammirevole desunta dagli Annali di Publio Africano Maggiore

Quod de Olympiade, Philippi regis uxore, Alexandri matre, in historia Graeca scriptum est, id de P. quoque Scipionis matre, qui prior Africanus appellatus est, memoriae datum est. Nam et C. Oppius et Iulius Hyginus aliique, qui de vita et rebus Africani scripserunt, matrem eius diu sterilem existimatam tradunt, P. quoque Scipionem, cum quo nupta erat, liberos desperavisse. Postea in cubiculo atque in lecto mulieris, cum absente marito cubans sola condormisset, visum repente esse iuxta eam cubare ingentem anguem eumque his, qui viderant, territis et clamantibus elapsum inveniri non quisse. Id ipsum P. Scipionem ad haruspices retulisse; eos sacrificio facto respondisse fore, ut liberi gignerentur, neque multis diebus, postquam ille anguis in lecto visus est, mulierem coepisse concepti fetus signa atque sensum pati; exinde mense decimo peperisse natumque esse hunc P. Africanum, qui Hannibalem et Carthaginienses in Africa bello Poenico secundo vicit. [...]


Quello che è scritto nella storia greca di Olimpiade, madre di Alessandro, è dato in memoria anche per la madre di Publio Scipione, che per primo fu chiamato l'Africano. Infatti Caio Oppio, Giulio Igino e altri, che scrissero sulla vita e sugli affari dell'Africano, raccontano che sua madre sterile fu ritenuta sterile per molto tempo, e che Publio Scipione, con cui era sposata, avesse perso la speranza di avere figli. Tempo dopo, quando la moglie giaceva sola nel letto, dormendo profondamente, senza il marito, fu visto dormire accanto a lei un enorme serpente e, quando quelli che lo avevano visto urlarono atterriti, sparì e nessuno poté trovarlo. Publio Scipione stesso espose questo fatto agli auruspici, che, fatto il sacrificio, risposero che sarebbe nato un figlio. Infatti non molti giorni dopo che quel serpente fu visto nel letto, la moglie iniziò a patire i sintomi della gravidanza; quindi il decimo mese partorì questo Publio Africano, che vinse Annibale e i Cartaginesi nella seconda guerra punica. [...]

Aulo Gellio - Noctes Atticae - Liber IV

Aulo Gellio

Noctes Atticae

Liber IV

XVIII - Un gesto memorabile di Scipione l'Africano

[...] Item aliud est factum eius praeclarum. Petilii quidam tribuni plebis a M., ut aiunt, Catone, inimico Scipionis, comparati in eum atque inmissi desiderabant in senatu instantissime, ut pecuniae Antiochinae praedaeque in eo bello captae rationem redderet; fuerat enim L. Scipioni Asiatico, fratri suo, imperatori in ea provincia legatus. Ibi Scipio exsurgit et prolato e sinu togae libro rationes in eo scriptas esse dixit omnis pecuniae omnisque praedae; illatum, ut palam recitaretur et ad aerarium deferretur. "Sed enim id iam non faciam" inquit "nec me ipse afficiam contumelia eumque librum statim coram discidit suis manibus et concerpsit aegre passus, quod, cui salus imperii ac reipublicae accepta ferri deberet, rationem pecuniae praedaticiae posceretur.
[...] Di lui è da rimarcare allo stesso modo un altro episodio. Certi Petilii, tribuni della plebe, a quel che si dice sobillati e spinti contro di lui da M. Catone, nemico di Scipione, chiedevano con grande insistenza in senato che egli facesse il rendiconto del denaro di Antioco e del bottino preso in quella guerra; infatti egli era stato luogotenente di suo fratello L. Scipione Asiatico, comandante in capo in quella provincia. Allora Scipione si alzò e, tirato fuori da un lembo della veste un libro disse che lì erano annotate tutte le somme di denaro e il bottino ; disse poi che quel libro era stato da lui portato proprio per essere letto di fronte a tutti e messo nell’erario. "Ma ora non lo farò più – disse – e non mi disonorerò da me stesso", e immediatamente con le sue stesse mani davanti a tutti strappò il libro e lo ridusse a pezzi, perché non riusciva a sopportare il fatto che si chiedesse di rendere conto del danaro facente parte della preda di guerra a chi doveva essere attribuita la conquista della salvezza del dominio e dello Stato romano.

Aulo Gellio - Noctes Atticae - Liber III

Aulo Gellio

Noctes Atticae

Liber III

XV - Anche la gioia può essere causa di morte

Exstare in litteris perque hominum memorias traditum, quod repente multis mortem attulit gaudium ingens insperatum interclusa anima et vim magni novique motus non sustinente. Cognito repente insperato gaudio exspirasse animam refert Aristoteles philosophus Polycritam, nobilem feminam Naxo insula. Philippides quoque, comoediarum poeta haut ignobilis, aetate iam edita, cum in certamine poetarum praeter spem vicisset et laetissime gauderet, inter illud gaudium repente mortuus est. De Rhodio etiam Diagora celebrata historia est. Is Diagoras tris filios adulescentis habuit, unum pugilem, alterum pancratiasten, tertium luctatorem. Eos omnis vidit vincere coronarique Olympiae eodem die et, cum ibi cum tres adulescentes amplexi coronis suis in caput patris positis saviarentur, cum populus gratulabundus flores undique in eum iaceret, ibidem in stadio inspectante populo in osculis atque in manibus filiorum animam efflavit. Praeterea in nostris annalibus scriptum legimus, qua tempestate apud Cannas exercitus populi Romani caesus est, anum matrem nuntio de morte filii adlato luctu atque maerore affectam esse; sed is nuntius non verus fuit, atque is adulescens non diu post ex ea pugna in urbem redit: anus repente filio viso copia atque turba et quasi ruina incidentis inopinati gaudii oppressa exanimataque est.

È documentato in letteratura ed è arrivato tramite le memorie degli uomini il fatto che una grande gioia inapettata porta molti alla morte improvvisa, con l'anima rotta e che non sostiene la forza di una grande e nuova commozione. Il filosofo Aristotele racconta che Policrita, nobile donna dell'isola di Nasso, rese l'anima all'improvviso per essere venuta a conoscenza di una gioia insperata. Anche Filippide, poeta non malvagio di commedie, avendo vinto in una gara di poeti oltre la speranza e rallegrandosi moltissimo, morì all'improvviso durante questa gioia. È anche risaputa la storia di Diagora di Rodi. Questo Diagora ebbe tre figli adolescenti, uno pugile, un altro pancraziaste e il terzo lottatore. Li vide tutti vincere ed essere incoronati ad Olimpia nello stesso giorno e, mentre lì i tre giovani dopo aver messo le loro corone sulla testa del padre lo baciavano e il popolo congratulandosi gettava fiori verso di lui da ogni parte, nello stesso momento morì nello stadio sotto gli occhi del popolo tra i baci e nelle mani dei figli. Inoltre nei nostri annali troviamo scritto che nel momento in cui l’esercito del popolo romano fu sbaragliato presso Canne una vecchia madre una volta riferita la notizia della morte del figlio si addolorò e si rattristò; ma questa notizia non fu vera e il giovane non molto dopo tornò in città da quella battaglia: la vecchia, visto il figlio all'improvviso, fu schiacciata e uccisa dall'abbondanza, dalla foga e quasi dalla distruttività dell'avvenuta gioia inattesa.

Aulo Gellio - Noctes Atticae - Liber I

Aulo Gellio

Noctes Atticae

Liber I
X
VII - Socrate e Santippe

Xantippe, Socratis philosophi uxor, morosa admodum fuisse dicitur, et iurgiosa irarumque et molestiarum muliebrium per diem perque noctem scatebat. Has eius intemperies in maritum Alcibiades demiratus interrogavit Socraten, quaenam ratio esset, cur mulierem tam acerbam domo non exigeret. "Quoniam", inquit Socrates, "cum illam domi talem perpetior, insuesco et exerceor, ut ceterorum quoque foris petulantiam et iniuriam facilius feram". [...]

Si dice che Santippe, moglie del filosofo Socrate, fosse molto scontrosa e litigiosa, e piena di giorno e di notte di ira e molestie tipicamente femminili. Sorpreso di queste sue stravaganze Alcibiade interrogò al marito Socrate se ci fosse qualche ragione del perchè non avesse mandato via di casa una moglie così acerba. "Poichè" disse Socrate "quando tollero quel tale siffatto in casa, mi abituo e mi esercito a sopportare più agevolmente anche l'ingiustizia e l'insolenza di tutti gli altri fuori". [...]


XXIII - Papirio, un fanciullo ingegnoso

Historia de Papirio Praetextato dicta scriptaque est a M. Catone in oratione, qua usus est ad milites contra Galbam, cum multa quidem venustate atque luce atque munditia verborum. Ea Catonis verba huic prorsus commentario indidissem, si libri copia fuisset id temporis, cum haec dictavi. Quod si non virtutes dignitatesque verborum, sed rem ipsam scire quaeris, res ferme ad hunc modum est: mos antea senatoribus Romae fuit in curiam cum praetextatis filiis introire. Tum, cum in senatu res maior quaepiam consultata eaque in diem posterum prolata est, placuitque, ut eam rem, super qua tractavissent, ne quis enuntiaret, priusquam decreta esset, mater Papirii pueri, qui cum parente suo in curia fuerat, percontata est filium, quidnam in senatu patres egissent. Puer respondit tacendum esse neque id dici licere. Mulier fit audiendi cupidior; secretum rei et silentium pueri animum eius ad inquirendum everberat: quaerit igitur compressius violentiusque. Tum puer matre urgente lepidi atque festivi mendacii consilium capit. Actum in senatu dixit, utrum videretur utilius exque republica esse, unusne ut duas uxores haberet, an ut una apud duos nupta esset. Hoc illa ubi audivit, animus compavescit, domo trepidans egreditur ad ceteras matronas. Pervenit ad senatum postridie matrum familias caterva; lacrimantes atque obsecrantes orant, una potius ut duobus nupta fieret, quam ut uni duae. Senatores ingredientes in curiam, quae illa mulierum intemperies et quid sibi postulatio istaec vellet, mirabantur. Puer Papirius in medium curiae progressus, quid mater audire institisset, quid ipse matri dixisset, rem, sicut fuerat, denarrat. Senatus fidem atque ingenium pueri exosculatur, consultum facit, uti posthac pueri cum patribus in curiam ne introeant, praeter ille unus Papirius, atque puero postea cognomentum honoris gratia inditum "Praetextatus" ob tacendi loquendique in aetate praetextae prudentiam.

La storia di Papirio Pretestato è stata raccontata e scritta da Marco Catone nell'orazione che fece ai soldati contro Galba, con certamente molta eleganza e splendore e raffinatezza di linguaggio. In questo diario avrei riportato direttamente queste parole di Catone, se, quando ho dettato queste cose, avessi avuto una copia del libro di quell'epoca. Ma se non mi chiedi il valore e la dignità delle parole, ma la conoscenza del fatto in sé, la storia è all'incirca così: prima era usanza dei senatori di Roma di entrare in senato coi figli che ancora indossavano la toga pretesta. Allora, quando in senato fu discussa una faccenda piuttosto importante e fu rinviata al giorno successivo, e si decise che nessuno dovesse parlare della faccenda su cui stavano discutendo prima che fosse stata deliberata, la madre del giovane Papirio, che era stato in senato con suo padre, interrogò il figlio su cosa mai i senatori avessero discusso in senato. Il ragazzo rispose che ciò doveva essere taciuto e non era lecito fosse detto. La donna diventa più desiderosa di sentire; la segretezza della cosa e il silenzio del ragazzo invitò il suo animo ad indagare: chiede dunque più insistentemente e più violentemente. Allora il ragazzo siccome la madre lo opprimeva decise di dire una bugia arguta e divertente. Disse che in senato si era discusso se sembrasse più utile e fosse più nell'interesse dello stato se uno avesse due mogli o se una fosse sposa di due. Quando quella udì ciò, si impaurì, uscì di casa tremante per andare dalle altre signore. Accorse in senato il giorno dopo una folla di madri di famiglia; piangendo e supplicando pregano che una donna potesse essere in sposa a due invece che due donne a uno. I senatori che entravano in curia si stupivano di tale insubordinazione di donne, e di che cosa quella petizione lì volesse da loro. Il giovane Papirio, avanzato al centro della curia, racconta che cosa la madre aveva stabilito di sentire, e che cosa lui avesse detto alla madre, insomma la storia così com'era stata. Il senato loda la lealtà e l'ingegno del ragazzo, prende la decisione che da quel momento in poi i ragazzi non potessero entrare in senato con i genitori, tranne quel Papirio, e in seguito fu dato al ragazzo in onore il cognome "Pretestato" per la prudenza nel tacere e nel parlare già in età pretesta

XXVI - Plutarco e il suo servo

[...] «Plutarchus, inquit, servo suo, nequam homini et contumaci, sed libris disputationibusque philosophiae aures imbutas habenti, tunicam detrahi ob nescio quod delictum caedique eum loro iussit. Coeperat verberari et obloquebatur non meruisse, ut vapulet; nihil mali, nihil sceleris admisisse. Postremo vociferari inter vapulandum incipit neque iam querimonias aut gemitus eiulatusque facere, sed verba seria et obiurgatoria: non ita esse Plutarchum, ut philosophum deceret; irasci turpe esse; saepe eum de malo irae dissertavisse, librum quoque De ira pulcherrimum conscripsisse; his omnibus, quae in eo libro scripta sint, nequaquam convenire, quod provolutus effususque in iram plurimis se plagis multaret. Tum Plutarchus lente et lemter: "Quid autem, inquit, verbero, nunc ego tibi irasci videor? Ex vultune meo an ex voce an ex colore an etiam ex verbis correptum esse me ira intellegis? Mihi quidem neque oculi, opinor, truces sunt neque os turbidum, neque immaniter clamo neque in spumam ruboremve effervesco neque pudenda dico aut paenitenda neque omnino trepido ira et gestio. Haec enim omnia, si ignoras, signa esse irarum solent". Et simul ad eum, qui caedebat, conversus: "Interini, inquit, dum ego atque hic disputamus, tu hoc age"». [...]

[...] «Plutarco , disse , ad un suo servo, uomo disonesto e arrogante, ma che aveva le orecchie imbevute di testi e discussioni di filosofia, ordinò che fosse tolta di dosso la tunica per non so quale colpa e che fosse frustato. Aveva cominciato appunto ad essere frustato e protestava di non essersi meritato di essere battuto, dicendo che non aveva fatto niente di male, nessun delitto. Alla fine, mentre veniva battuto, si mise a gridare, ma non più ad emettere lamenti o gemiti e ululati, ma a dire parole severe e di rimprovero: diceva cioè che Plutarco non agiva così come conveniva ad un filosofo, che adirarsi era vergognoso, che lui più volte aveva discusso sui danni dell’ira, che aveva persino scritto un libro bellissimo sul dominio dell’ira; a tutto quello che risultava scritto in quel libro non si addiceva affatto che lui lo punisse con botte a non finire lasciandosi trascinare dall’ira. Allora Plutarco, con tranquillità e calma ribatté: "Che, furfante? Ti pare che adesso io sia in preda all’ira? Lo deduci forse dalla mia espressione del volto o dal tono della voce o dal colorito o anche dalle parole? Non ho davvero, credo, gli occhi cupi né l’espressione torva né grido in modo disumano né ribollo sbavando o infiammandomi e non dico cose di cui ci si debba vergognare o pentire e neppure per effetto dell’ira fremo né gesticolo. Se tu non lo sai, sono tutti questi di solito i segni dell’ira". E nello stesso tempo rivolto a colui che lo frustava disse: “Tu nel frattempo, mentre io e lui stiamo a discutere, fa’ quello che devi fare». [...]

Fedro - Fabulae - Liber IV

Fedro - Fabulae

Liber IV

IV, 10 - I Vizi dell'Uomo
Peras imposuit Iuppiter nobis duas:
Propriis repletam vitiis post tergum dedit,
Alienis ante pectus suspendit gravem.
Hac re videre nostra mala non possumus,
Alii simul deliquunt censores sumus.

Giove ci mise sulle spalle due bisacce: pose dietro la schiena la bisaccia piena dei propri difetti, sospese davanti al petto la pesante bisaccia dei vizi degli altri. A causa di ciò non possiamo vedere i nostri difetti, ma siamo critici severi non appena gli altri sbagliano.

Fedro - Fabulae - Liber III

Fedro - Fabulae

Liber III

III, 7 - Il lupo magro e il cane grasso
Quam dulcis sit libertas breviter proloquar.
Cani perpasto macie confectus lupus
forte occurrit; dein, salutati invicem
ut restiterunt, "Unde sic, quaeso, nites?
Aut quo cibo fecisti tantum corporis?
Ego, qui sum longe fortior, pereo fame.
"Canis simpliciter: "Eadem est condicio tibi,
praestare domino si par officium potes".
"Quod?" inquit ille. "Custos ut sis liminis,
a furibus tuearis et noctu domum.
Adfertur ultro panis; de mensa sua
dat ossa dominus; frusta iactat familia,
et quod fastidit quisque pulmentarium.
Sic sine labore venter impletur meus".
"Ego vero sum paratus: nunc patior nives
imbresque in silvis asperam vitam trahens.
Quanto est facilius mihi sub tecto vivere,
et otiosum largo satiari cibo!"
"Veni ergo mecum". Dum procedunt, aspicit
lupus a catena collum detritum cani.
"Unde hoc, amice?". "Nil est". "Dic, sodes, tamen".
"Quia videor acer, alligant me interdiu,
luce ut quiescam, et uigilem nox cum venerit:
crepusculo solutus qua visum est vagor".
"Age, abire si quo est animus, est licentia?"
"Non plane est" inquit. "Fruere quae laudas, canis;
regnare nolo, liber ut non sim mihi".
Quanto sia dolce la libertà lo dirò brevemente. Un giorno un lupo emaciato dalla fame incontrò un cane ben pasciuto. Fermatisi, dopo essersi salutati: "Dimmi, come fai ad essere così bello? Con quale cibo sei ingrassato tanto? Io che sono di gran lunga più forte, muoio di fame". Il cane schiettamente: "Puoi stare così anche tu, se presti ugual servizio al mio padrone". "Quale?", chiese. "La guardia della porta, la custodia della casa dai ladri della notte". "Ma io sono pronto! Ora conduco una vita grama sopportando nei boschi neve e piogge; quanto è più facile vivere sotto un tetto, starsene in ozio, saziandosi di abbondante cibo!". "Vieni dunque con me". Mentre camminano il lupo vede il collo del cane spelacchiato dalla catena. "Amico, cos'è questo?". "Non è niente". "Ma ti prego, dimmelo". "Dato che sembro troppo vivace, mi legano di giorno, affinché riposi quando è chiaro e sia sveglio quando viene la notte; al tramonto, slegato, me ne vado in giro dove voglio. Mi danno il pane senza che lo chieda; il padrone mi getta le ossa dalla sua mensa; gettano pezzi i servi e quel che avanza del companatico. Così, senza fatica, la mia pancia si riempie". "Ma se ti viene voglia di andartene, è permesso?". "Questo no", rispose. "Goditi quello che vanti, o cane. Neanche un regno vorrei, se non sono libero".

Fedro - Fabulae - Liber II

Fedro - Fabulae

Liber II

VII - I due muli e i ladri

Muli gravati sarcinis ibant duo:
unus ferebat fiscos cum pecunia,
alter tumentis multo saccos hordeo.
Ille onere dives celsa cervice eminens,
clarumque collo iactans tintinabulum;
comes quieto sequitur et placido gradu.
Subito latrones ex insidiis advolant,
interque caedem ferro ditem sauciant:
diripiunt nummos, neglegunt vile hordeum.
Spoliatus igitur casus cum fleret suos,
"Equidem", inquit alter, "me contemptum gaudeo;
nam nil amisi, nec sum laesus vulnere".
Hoc argumento tuta est hominum tenuitas,
magnae periclo sunt opes obnoxiae.

Due muli camminavano, carichi di sacche; uno portava delle sacche di denaro, l'altro sacche piene zeppe di molto orzo. Il primo, ricco, che sporgeva con il collo fiero per il carico, e che, altezzoso, scuoteva con il collo il "sonaglio"; il compagno lo segue con passo lento e tranquillo. Improvvisamente da un'imboscata irrompono dei briganti, e nella mischia colpirono con una spada quello ricco, saccheggiano le monete ed ignorarono il vile orzo. Allora, mentre quello derubato piangeva le sue disgrazie, l'altro disse: "Sono veramente felice di essere stato disprezzato; infatti non ho perso niente, e non sono stato ferito".Con questo discorso è difesa la semplicità degli uomini, mentre le ricchezze sono soggette a un grande pericolo.

Fedro - Fabulae - Liber I

Fedro - Fabulae

Liber I

I - Il lupo e l'agnello

Ad rivum eundem lupus et agnus venerant,
Siti compulsi; superior stabat lupus
Longeque inferior agnus. Tunc fauce improba
Latro incitatus iurgii causea intulit.
"Cur", inquit, "turbulentam fecisti mihi
Aquambibenti?". "Laniger contra timens:
"Qui possum, quaeso, facere quod quereris, lupe?
A te decurrit ad meos haustus liqour
Repulsus ille veritatis viribus:"
Ante hos sex menses male", ait, "dixisti mihi"
Respondit agnus: "Equidem natus non eram".
"Pater hercle tuus", inquit, "male dixit mihi".
Atque ita correptum lacerat iniusta nece.
Haec propter illos scripta est homines fabula,
Qui fictis causis innocentes opprimunt.

Un lupo e un agnello spinti dalla sete erano andati allo stesso ruscello; il lupo stava più in alto e l'agnello di gran lunga più in basso. Allora il prepotente spinto dalla gola malvagia portò un motivo di litigio. "Perché" disse "mi hai reso torbida l'acqua che bevo?". L'agnello come risposta disse temendo: "Come posso io, di grazia, fare quello di cui ti lamenti, o lupo? L'acqua scorre da te alla mia bocca". Quello respinto dalla forza della verità: "Sei mesi fa tu hai parlato male di me". L'agnello rispose: "Ma io non era nato.". "Tuo padre, per Ercole, ha parlato male di me". E così il lupo lo sbrana dopo averlo afferrato con una ingiusta morte. Questa favola è stata scritta a causa di quegli uomini i quali opprimono gli innocenti a causa di falsi pretesti.


V - La legge del più forte

Numquam est fidelis cum potente societas:
testatur haes fabella propositum meum.
Vacca et capella et patiens ovis iniuriae
Socii fuere cum leone in saltibus.
Hi cum sepissent cervum vasti corporis,
sic est locutu partibus factis leo:
"Ego primam tollo, nomina quia leo;
secundam, quia sum socius, tribuetis mihi;
tum, quia plus valeo, me sequetur tertia;
malo adficietur, siquis quartam tetigerit".
Sic totam praedam sola improbitas abstulit.

Non c'è mai un'alleanza sicura con un prepotente: questa favola dimostra la mia premessa. Una mucca , una capretta e una pecora, che tollera l'offesa, furono socie con un leone nei boschi. Avendo questi preso un cervo dalla grande corporatura, il leone parlò così, dopo che furono fatte le parti: "io prendo la prima , perché sono chiamato leone; la seconda la darete a me, perché sono il vostro socio, poi, la terza parte mi seguirà perché sono il più forte; se qualcuno toccherà la quarta parte, sarà colpito dal male.". Così la sola prepotenza portò via tutta la preda.


XV - L'immutabile Condizione degli Umili

In principatu commutando, saepius
nil praeter domini nomen mutant pauperes.
Id esse verum parva haec fabella indicat.
Asellum in prato timidum pascebat senex.
Is hostium clamore subito territus
suadebat asino fugere ne possent capi.
At ille lentus: "Quaeso, num binas mihi
clitellas impositurum victorem putas?".
Senex negavit. "Ego quid mea,
cui seviam, clitellas dum portem meas?".

Nel cambiare governo, troppo spesso i poveri non cambiano nulla tranne il nome del padrone. Questa favola dimostra che questo è vero. Un vecchio timoroso pascolava un asinello nel prato. Quello atterrito dall'improvviso arrivo dei nemici, persuadeva l'asino a fuggire per non essere catturati. Ma quello calmo: "Per favore, forse tu pensi che il vincitore mi imporrà due bisacce?". Il vecchio negò. "Pertanto cosa mi interessa a chi io serva, purchè io porti le mie bisacce?".


XX - I cani famelici

Stultum consilium non modo effectu caret,
sed ad perniciem quoque mortalis devocat.
Corium depressum in fluvio viderunt canes.
Id ut comesse extractum possent facilius,
aquam coepere ebibere: sed rupti prius
periere quam quod petierant contingerent.

Un consiglio sciocco non solo è privo di risultato, ma conduce i mortali anche alla rovina. Dei cani videro nel fiume una pelle di animale messa a mollo. Per poterla più facilmente mangiare una volta estratta, cominciarono a bere l’acqua: ma morirono scoppiati prima di poter toccare quello che cercavano.


XXIV - La rana invidiosa del bue

Inops, potentem dum vult imitari, perit.
In prato qundam rana conspexit bovem
Et tacta invidia tantae magnitudinis
Rugosam inflavit pellem: tum natos suos
Interrogavit, an bove esse latior.
Ille negaverunt. Rursus intendit cutem
Maiore nisu et simili quaesivit modo,
Quis maior esset. Illi dixerunt bovem.
Novissime indignata, dum vult validius
Inflare sese, rupto iacuit corpore.

Il debole, quando vuole imitare il potente, perisce. Una volta una rana vide in un prato un bue e colpita dall'invidia per una tale grandezza gonfiò la pelle rugosa: poi chiese ai suoi piccoli, se fosse più grande del bue. Quelli negarono. Nuovamente tese la pelle con uno sforzo maggiore e in modo simile chiese, chi fosse il più grosso. Quelli dissero il bue. Infine indignata mentre volle gonfiarsi di più, giacque con il corpo scoppiato.


XXVIII - La volpe e l'aquila

Quamvis sublimes debent humiles metuere,
vindicta docili quia patet sollertiae.
Vulpinos catulos aquila quondam sustulit,
nidoque posuit pullis escam ut carperent.
Hanc persecuta mater orare incipit,
ne tantum miserae luctum importaret sibi.
Contempsit illa, tuta quippe ipso loco.
Vulpes ab ara rapuit ardentem facem,
totamque flammis arborem circumdedit,
hosti dolorem damno miscens sanguinis.
Aquila, ut periclo mortis eriperet suos,
incolumes natos supplex vulpi reddidit.

I superbi devono temere moltissimo gli umili, poiché la vendetta è esposta a una duttile furbizia. Una volta un'aquila catturò dei piccoli volpini e li adagiò nel nido per i suoi pulcini affinché li beccassero. Mamma volpe, che aveva seguito questa, cominciò a supplicarla di non arrecare a lei infelice un così grande dolore. L’aquila disprezzò la preghiera della volpe, dato che era al sicuro in quel posto. La volpe prese una fiaccola ardente dall'altare , circondò tutto l'albero con le fiamme, mischiando al danno della sua progenie il dolore del nemico. prometteva così alla misera nemica una morte atroce, anche procurando danno ai suoi figli. E L'aquila, per sottrarre i suoi figli dal pericolo di morte, restituì supplice i figli incolumi alla volpe.

Eutropio - Breviarium - Liber VIII

Eutropio - Breviarium

Liber VIII

XI
Post eum M. Antoninus solus rem publicam tenuit, vir quem mirari facilius quis quam laudare possit. A principio vitae tranquillissimus, adeo ut ex infantia quoque vultum nec ex gaudio nec ex maerore mutaverit. Philosophiae deditus Stoicae, ipse etiam non solum vitae moribus, sed etiam eruditione philosophus. Tantae admirationis adhuc iuvenis, ut eum successorem paraverit Hadrianus relinquere, adoptato tamen Antonino Pio generum ei idcirco esse voluerit, ut hoc ordine ad imperium perveniret.
Dopo di lui resse da solo lo Stato Marco Antonino, uomo che qualcuno può più facilmente ammirare che lodare. Fin dal principio della vita fu molto tranquillo, a tal punto che fin dall'infanzia non mutava faccia né alla gioia né dal dolore. Dedito alla filosofia Stoica, anch'egli fu filosofo non solo per il comportamento, ma anche per l'erudizione. Da giovane fu degno di così tanta ammirazione, che Adriano dispose che fosse lasciato come successore, e adottato tuttavia Antonino Pio, volle appunto che fosse per lui genero, affinché prendesse la carica di imperatore per quest'ordine.
XII
Institutus est ad philosophiam per Apollonium Chalcedonium, ad scientiam litterarum Graecarum per Sextus Chaeronensem, Plutarchi nepotem, Latinas autem eum litteras Fronto, orator nobilissimus, docuit. Hic cum omnibus Romae aequo iure egit, ad nullam insolentiam elatus est imperii fastigio; liberalitatis promptissimae. Provincias ingenti benignitate et moderatione tractavit. [...]
Fu istruito in filosofia da Apollonio Calcedonio, in letteratura Greca grazie a Sesto di Cheronea, nipote di Plutarco, mentre quella latina gliela insegnò Frontone, grandissimo oratore. Questo a Roma trattò con tutti con piena uguaglianza di diritti, non fu spinto a nessuna sconvenienza per la grandezza dell'impero; fu di una evidentissima benevolenza. Trattò le province con grande benevolenza e moderazione. [...]